DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Appello ai padri. E’ l’ultima chiamata



Autore: Saro, Luisella  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 12 gennaio 2014

«Dicono che avresti avuto bisogno di un Padre. Un vero Padre. Che avresti avuto bisogno del suo ordine ben strutturato, ben codificato, così da poterlo fare tuo oppure confutarlo e combatterlo, e combattendolo diventare un uomo. Non c’è argomento che mi metta più in difficoltà. Del padre non ho che alcune attitudini. Per esempio quella, non trascurabile, di mantenerti con il mio lavoro e la mia fatica. (…) Ma riconosco che di tutte le altre tradizionali attitudini del padre – stabilire regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un convincente interprete. (…) Sento di sembrare uno che si è ricordato all’improvviso, costretto dall’emergenza, che avrebbe avuto il compito di governare. E non lo ha fatto. E simula, come il più ipocrita o il più inetto dei politici, di avere un programma di governo affastellando alla rinfusa mozziconi di regole, minacce improbabili, ricatti sentimentali, con la voce che oscilla dal borbottio lugubre all’acuto nevrastenico. Nel corso di questi concitati e per fortuna rari comizi domestici, dubito di almeno la metà delle cose che ti dico.»
(Michele Serra, Gli sdraiati)

Ieri ho assistito, con i miei studenti di quarta liceo, allo spettacolo teatrale “Branco di scuola”, di Guido Castiglia. E’ la storia di un fratello e una sorella che, in maniera diversa, sono stretti nella morsa del bullismo. Nessun adulto, in quello spettacolo. Il flash di due genitori che non si accorgono di nulla, e nessun insegnante in giro, anche se i fatti si svolgono nei corridoi o nel cortile della scuola. Solo «Silvano, il bidello del secondo piano», che prende a calci i bulletti, ma non perché ha qualcosa da ridire sulle sopruserie di cui sono protagonisti. No. Per le «impronte di merda» che hanno lasciato sulla sua scrivania. Di altri adulti neanche l’ombra.
Al momento delle domande, nessuno, tra il pubblico di studenti e insegnanti, ha avuto nulla da eccepire.
Ieri, dopo lo spettacolo, in classe abbiamo discusso del bullismo, ma anche di questo: del rapporto con gli insegnanti e con i genitori. Uno studente pluribocciato mi fa: prof, un amico di mio padre dice che compito dei genitori è, nel più breve tempo possibile, rendere i figli più indipendenti possibili. E’ diventato questo, oggi, un padre, una madre? Data di scadenza e timer incorporato?
Leggo di adulti (politici e non) che premono per la legalizzazione della cannabis. Sì, a volte ritornano. E le motivazioni sono le più disparate. Economiche, sociali, mediche, legali, storiche, culturali, antropologiche, modaiole, giovanilistiche, di strategia politica… Nessuno, tra chi è a favore, pare però preoccuparsi delle conseguenze educative. I giovani ci guardano. Guardano questi adulti che avvallano i vizi privati come fossero pubbliche virtù. E così, di commento in commento, pare di essere tornati al panem et circenses. Non c’è panem, sorry, ma, promesso, abbonderemo con i circenses. Fumo negli occhi nel cuore nel cervello. Letteralmente. Così non pensate al lavoro che non c’è, alla latitanza delle guide, né alla pancia che brontola. Nell’epoca dei desideri e dei porci comodi, circenses a go go.
Esempi? Il sessantenne che è stato beccato in intimità con la dodicenne, per dirne una. Pedofilia? Macché, ha decretato la Cassazione. Erano consenzienti, ed è stato un piacere. Love is love, bellezza! E pazienza se lei è solo una bambina e - quando ancora si pensava al bene (vero) dei minori - lui sarebbe stato chiamato orco. Divertiamoci. Sperimentiamo tutto e anche di più, sin dalla più tenera età. I bambini arcobaleno in America, ad esempio. I creative gender, né maschi né femmina, sono educati (!) invitandoli a giocare con tutte le identità sessuali. Decideranno da grandi. Intanto, non si faccia pesare a Tiziocaia né a Caiasempronio il suo pene o la sua vagina. Gli/le si dica che sono un optional. Dotato di pene deciderà da grande se vorrà davvero essere considerato maschio. E viceversa. L’ideologia gender, del resto, è fatta apposta per convincerti che i mutamenti sono sempre possibili, e che le identità fluttuano. E non sono mica due, come pensiamo noi insegnanti di italiano, ancorati al vetusto genere “maschile” e “femminile”, che pare siano sorpassatissimi. Nel museo degli orrori non c’è limite alla fantasia, e così, nel nuovo acronimo LGBTQIA “Q” significa sia “questions” sia “queer” (travestiti), “I” vale per “intersex”: persone che hanno anatomia sia maschile che femminile, e “A” sta per “alleato” (amico della causa di liberazione sessuale) o “asessuato” (persona definita dalla mancanza di attrazione sessuale). Solo esempi, anche se, probabilmente, quando sarà in linea questa riflessione sarà già spuntata qualche altra lettera, corrispondente a qualche altra opzione. Nella dittatura del relativismo, in cui non si può dire cosa è bene e cosa è male, ogni desiderio diventi diritto e ogni diritto diventi legge. Famolo strano, e così sia.
Altro tema di questi giorni, l’attribuzione ai figli del cognome della madre o di entrambi i genitori. E mentre penso che la quarta generazione avrà bisogno del computer portatile per ricordare i suoi sedici cognomi, mi avvertono che l’orientamento, in realtà, pare essere quello di far decidere al figlio maggiorenne se scegliere il cognome paterno o materno. Andrà a farsi benedire l’ordine genealogico (che poi è uno degli obiettivi, così ci sradicano meglio), e per gettare ulteriore zizzania in quel che resta della famiglia, al figlio si chiederà se preferisce il padre o la madre, «l’un contro l’altra armato». Cui prodest?
Ieri, a scuola, ho avuto i colloqui generali con i genitori dei miei studenti. Papà e mamma sono venuti insieme, oppure ho visto solo la mamma, a volte solo il papà. Delle famiglie dei ragazzi più problematici spesso non si è presentato nessuno. Genitori assenti ingiustificati, una volta ancora. O presenti ma frettolosi (che siano tutti fans dell’amico di famiglia del mio studente?) Tranne qualcuno, li ho visti affaticati, sfiduciati, disarmati. Sguarniti nel cuore prima ancora che negli strumenti pedagogici.
Il papà di un ragazzo di seconda, sette in condotta e pagella che sembra un colabrodo, scuotendo la testa, occhi bassi, mi ha detto che non sa come prenderlo. Cosa ci posso fare, professoressa: ormai è un figlio perso, ma lo sa anche lei che non tutte le ciambelle riescono con il buco... Le manderò mia moglie. Anzi no, faccia lei.Dove sono (finiti) i padri? Dove sono gli adulti, a casa e a scuola? Che guide hanno i giovani per imparare le regole, per entrare nel mondo, per essere accompagnati lungo il cammino, in questa realtà che è sempre più complessa, più insidiosa?
Chi glielo insegna, ai ragazzi, che la vita non è sessodroga e rock n’ roll?
Così scrive Michele Serra, alla fine del suo romanzo “Gli sdraiati”. «Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella certa dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava,quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io – non altri – sono quelle due sillabe. Io sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve.» Appello ai padri. E’ l’ultima chiamata.

P.S. Il 31 dicembre, come tutti gli anni, a braccetto con il mio papà sono andata al Te Deum. Ottantacinque anni compiuti, nonostante il bastone fatica un po’ a camminare. Lentamente, andando verso la chiesa, una certezza: era lui che accompagnava me. E ho sorriso.