DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Quando Bergoglio avvertiva: non tradiamo il popolo con la mentalità illuminista


Dostoevskij, Romano Guardini e Paolo VI negli scritti riproposti dal gesuita argentino Diego Fares, amico di Papa Francesco, nell’ultimo numero di Civiltà cattolica

IACOPO SCARAMUZZICITTÀ DEL VATICANO
Romano Guardini e Dostoevskij, Paolo VI e il marxismo. In un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Civiltà cattolica il gesuita Diego Fares, professore di teologia alla Pontificia universidad Catolica argentina “che conosce Papa Francesco da quarant’anni”, ricostruisce, con testi inediti in Italia, la “antropologia politica” di Jorge Mario Bergoglio. Un pensiero che ruota attorno al “popolo fedele” e alla “vicinanza” dei pastori nei suoi confronti. Idee che Bergoglio elaborò sin dai tempi del suo provincialato dei gesuiti argentini (1973-1979) che coincisero, in parte, con i drammatici anni della dittatura militare iniziata nel 1976.


“Già nel 1974, l’allora giovane provinciale Jorge Mario Bergoglio, all’apertura della congregazione provinciale dei gesuiti argentini, metteva in rilievo ‘il riconoscimento del senso di riserva religiosa che il popolo fedele possiede’”, scrive padre Fares nel fascicolo del quindicinale dei gesuiti che esce oggi. In uno scritto del 1982, Meditaciones para religiosos, Bergoglio spiega al riguardo: “Quando studiavo teologia, quando ripassavo il Denzinger e i trattati per dimostrare le tesi, mi colpì molto una formulazione della tradizione cristiana: il popolo fedele è infallibile in credendo, nel credere. Da qui poi trassi la mia formula personale, che non sarà molto precisa, ma che mi aiuta molto: quando vuoi sapere ciò che crede la Madre Chiesa, rivolgiti al Magistero, perché esso ha l’incarico di insegnarlo in maniera infallibile; ma quando vuoi sapere come crede la Chiesa, rivolgiti al popolo fedele”. Questa “formula personale” si concretizza nella frase seguente: “Il Magistero ti insegnerà chi è Maria, ma il nostro popolo fedele ti insegnerà come si ama Maria”.


Passano pochi anni, nel 1975 viene pubblicata la Evangelii nuntiandi di Paolo VI (documento che il futuro Papa “ha sempre considerato particolarmente ispirato”), lo stesso hanno ha luogo la XXXII congregazione generale dei gesuiti. E in un articolo successivo intitolato Criteri di azione apostolica, Bergoglio torna a parlare di “popolo come riserva”, affermando che la “inculturazione del Vangelo”, che mira al “processo di cambiamento delle strutture (persino nelle strutture del cuore)”, deve “compiere lo sforzo di giustizia per non tradire la cultura del nostro popolo, i suoi valori e le sue aspirazioni legittime, evitando di filtrarli attraverso la nostra mentalità ‘illuminista’”. Scrive Bergoglio: “I popoli hanno abitudini, capacità di valutazione, contenuti culturali che sfuggono a qualsiasi classificazione: sono sovrani nella loro possibilità di interpellare”. Questo conduce ad “affinare l’udito per udire tali richiami e presuppone umiltà, affetto, abitudine all’inculturazione e, soprattutto, l’aver respinto da sé l’assurda pretesa di trasformarsi in ‘voce’ dei popoli, pensando forse che essi non la abbiano. Tutti i popoli ce l’hanno, magari ridotta a volte a un sussurro a causa dell’oppressione. Bisogna aguzzare l’udito e ascoltarla, ma non voler parlare noi al loro posto. Per un pastore, la domanda iniziale di ogni riforma delle strutture dovrebbe essere: ‘Che cosa mi chiede il mio popolo?’’.


In particolare, il commento di Bergoglio al più noto decreto della congregazione generale del 1979, il IV intitolato “La nostra missione oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia”, “bandiera – chiosa padre Fares – di coloro che si impegnavano con i poveri giustificando perfino la lotta armata, e antibandiera di coloro che non si volevano assolutamente impegnare con essi”, era questo: “Camminando pazientemente e umilmente con i poveri, scopriremo in che cosa possiamo aiutarli, dopo aver prima accettato di ricevere da loro. Senza questo lento camminare con loro, l’azione a favore dei poveri e degli oppressi sarebbe in contraddizione con le nostre intenzioni e impedirebbe ad essi di far sentire le loro aspirazioni e di acquisire da sé gli strumenti per una effettiva assunzione in prima persona del loro destino personale e collettivo”. La concezione di Bergoglio, riassume padre Fares, “superò chiaramente le false antinomie che dividevano i cristiani in progressisti e conservatori”.

Convinzioni che portano l’arcivescovo di Buenos Aires, anni dopo, a parlare – che si tratti della crisi economica dell’Argentina nel 2001 o l’incontro dell’episcopato latino-americano ad Aparecida nel 2009 – di “cultura dell’incontro”: “Gesù – afferma Bergoglio in una messa nel 2012 – non faceva proselitismo, accompagnava. Il Dio vicino, vicino alla nostra carne. Il Dio dell’incontro che va all’incontro con il suo popolo. Il Dio che mette il suo popolo in una situazione di incontro. E con quella vicinanza, con questo camminare crea quella cultura dell’incontro che ci fa fratelli, ci fa figli, e non membri di una ong o proseliti di una multinazionale. Vicinanza, è questa la proposta”. Dietro la concezione che Francesco ha del popolo, scrive Fares, troviamo Romano Guardini, “e dietro di lui”, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov: “E’ il popolo che, nonostante le sue miserie e i suoi peccati, è autenticamente umano e, nonostante tutta la sua bassezza, è ricco di contenuti e sano, perché affonda le sue radici nella struttura essenziale dell’essere”.

Vaticaninsider