DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L'autoscatto metafora del nostro tempo.


Tutto è "auto": autostima, autogestione, autocoscienza, autoironia, autoerotismo, riflessi di una generazione affetta da un inguaribile autismo dell'anima. L'altro è, semplicemente, uno specchio dove rifrangere la nostra immagine, non esiste, vive nel prolungamento del proprio ego. Non serve neanche a farci una foto, non importa che cosa potrebbe apprezzare e criticare. L'altro non serve neanche per fare un figlio. Amici, fidanzati o compagne, mogli e mariti, esistono esclusivamente per guardarci. Viviamo attaccati a un respiratore artificiale, l'altro che giace accanto a noi condannato a guardarci. Altro che Parola creatrice, sono gli sguardi a darci vita; chiusi gli occhi moriamo. Siamo nel post-narcisismo, basta esistere e resistere in effige, in una sorta di eterno ritorno che ci abbraccia come una piovra: rinasciamo mille volte al giorno al materializzarci sul display, per morire ingoiati nel buio al suo spegnimento. L'esistenza è un lampo, obbedisce al tempo concesso prima che il salvaschermo chiuda il sipario. E' triste una vita stretta nel sandwich crudele del risparmio energetico; dobbiamo infilarci nella frazione di tempo che l'altro ritiene non essere sprecata. Ecco perché tutto è sempre "fast" nel regno dell' "auto": cibo, lavoro, relazioni, sesso, televisione e cinema, svaghi, anche il calcio è cambiato, tutto ripartenze immediate e chi non ha gambe è perduto. Una fatica immane, il "sudore della fronte" di questa generazione: non più sotto il sole dei campi a cercarvi il cibo per giornate intere, ma il "dolore" figlio dell'illusione di afferrare la vita tra un battito di ciglia e un altro. Solo Cristo può salvarci, Lui che ha vinto l'effimero e ci dischiude l'eternità dell'amore nel tempo che ci è donato.

A.I.




Selfie ergo sum

Filosofia dell’autoscatto

Oggi se non fai selfie non sei nessuno. Sapevo che “selfie” è la parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionary.  C’è anche un galateo da autoscatto, ammiccante o autocelebrativo. “Bisogna inclinare la testa, tenere il telefono leggermente sopra la linea dello sguardo (per ingrandire gli occhi e snellire il volto), evitare nel modo più assoluto il flash, che spara e fa l’effetto foto segnaletica, sorridere ma senza troppi denti, trattenere un po’ d’aria fra le guance in modo da far risaltare le labbra, inventarsi un’aria furba, o almeno maliziosa, qualcosa rispetto a cui poter dire: era un autoscatto autoironico”. Lo ha scritto a suo tempo Annalena ispirata da Elizabeth Day: “Me, my Selfie and I”. Ma “non si sorride nei selfie, dilettanti”, dice su Twitter Guia Soncini che in certe cose è la Cassazione... Troppo poco per concluderne che Narciso è vivo e lotta insieme a noi, dentro di noi, nel socialmondo? Narciso godeva di se stesso con se stesso, il suo era un autoerotismo autentico, una passione mortale per la propria immagine da non condividere con altri, pena sciuparsi, dissiparsi, perdersi nella socialità. Il selfie è un’altra cosa, l’amplesso cerebrale non avviene con il doppio ma con gli occhi di chi guarda. E’ l’estroflessione totale e definitiva dell’ego, la sublimazione dell’importanza che si attribuisce a se stessi, alla propria storia personale. In un certo senso è pure il calco negativo dell’autocommiserazione: chiedere con una foto “non ti sembro figo?” è retoricamente parlante come un “non ti faccio pena?”. Identica è la presunzione d’innocente irrinunciabilità. E questa presunzione è la somma algebrica di tutti gli ego, dunque non ha nemmeno più un sesso, è il trionfo di un indistinto nel quale i moralisti troveranno, con Balzac, l’anima del vizio contemporaneo o solo il vizio senz’anima. Forse bisogna ammettere che Narciso è quell’indistinto che guarda se stesso attraverso di noi.

Alessandro Giuli
Il Foglio, 5 dicembre 2013