DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Lost in the family. Appunti statistici e screening della salute della ex “cellula base” della società. Ad uso del Sinodo, ma non solo


Roberto Volpi

La “tenerezza per le persone ferite” potrebbe non bastare come bussola per trovare la rotta da seguire tra la moltiplicazione delle concezioni di famiglia da un lato – ciascuno sembra averne una propria, a suo uso e consumo – e la profonda crisi della famiglia tradizionale, quella formata dalla coppia eterosessuale più i figli, dall’altro. E questa forma di famiglia non tiene, ecco la realtà che sta di fronte all’Italia e alla stessa Europa.
Viviamo, oggi, nell’evoluto occidente, in società a bassa intensità di famiglia. Società, come quella italiana, che ancora quattro decenni fa erano ad alta, se non addirittura ad altissima, densità di famiglia sono precipitate drammaticamente nell’inconsistenza della famiglia. Caduta verificatasi sotto gli occhi di tutti eppure nel disinteresse pressoché generale, nel silenzio della politica, nella notarile azione dei governi, nella malcelata soddisfazione del mondo della cultura, che da sempre, nella sua maggioranza, attribuisce alla famiglia tradizionale un carattere conservatore, una vocazione esclusivista e prevaricatrice. Così è potuto succedere, per esempio in Italia, che da un valore di 4,5 componenti a famiglia di un secolo fa si scivolasse lentamente a 4 negli anni Cinquanta, più svelta mente a 3 negli Ottanta e di questo passo si marciasse spediti verso i 2 del prossimo decennio – se non già della fine di questo, visto che la media italiana attuale è di 2,3 componenti a famiglia. Il divario – attenzione – tra l’inizio e la fine del periodo considerato è ben più cospicuo di quanto non dicano queste cifre. Infatti, l’universo delle famiglie è in certo qual senso obbligatoriamente formato da almeno due persone, se si eccettuano le famiglie unipersonali formate da una sola persona (a regola non famiglie, famiglie soltanto in forza della statistica), cosicché un calcolo più preciso ci direbbe che mentre si avevano almeno tre componenti oltre la coppia cent’anni fa se ne ha uno scarso quest’oggi. L’inabissamento è stato fermato dalla terra subacquea, per dir così. La famiglia sta infatti avviandosi alla sua soglia d’inconsistenza, oltre la quale non può sprofondare. Difficile dire, per esempio, dove possano ancora finire le famiglie in Liguria o nella provincia di Trieste, essendo già scese, in quei paraggi, sotto la soglia di due componenti in media a famiglia. Una soglia che ci suggerisce come da quelle parti la famiglia intesa come la coppia più i figli sia di fatto se non estin ta in via di rapida, e sicura, stando così le cose, estinzione.
Il rischio (al sinodo) è che anche la più approfondita riflessione sulla famiglia che possa derivarne si muova e agisca ai margini del territorio dove giace il corpaccione spiaggiato della famiglia tradizionale, incapace di penetrarvi dentro per provarsi a rianimarlo. Quella italiana è diventata in un batter d’occhio una delle società a più bassa densità di famiglia del mondo. Quando si parla di “densità di famiglia” non si intende affatto la “quantità” delle famiglie, giacché se si dovesse giudicare dal numero delle famiglie stimate ad oggi in Italia (26 milioni) si sarebbe portati piuttosto a concludere con un giudizio del tutto opposto, di ricchezza di famiglie e non di povertà di famiglie, essendo che il numero delle famiglie non fa che crescere da un anno all’altro. Il paradosso è giusto questo, che crescono più le famiglie degli abitanti. Paradosso solo apparente, sia chiaro, nient’affatto logico-statistico e meno ancora culturale in senso lato. Il fatto è che le famiglie italiane non soltanto non si formano, e non formandosi determinano l’aumento di quelle unipersonali, di una sola persona, costituite da celibi o nubili, ma si scindono, per separazioni e divorzi, e si assottigliano in conseguenza del sopravvenire di stati di vedovanza collegati all’incessante aumento della speranza di vita e del venir meno dei figli. Insomma, una riduzione continua della famiglia ai minimi termini, un suo continuo annacquamento in quanto famiglia, che non contraddice il suo moltiplicarsi ma ne rappresenta, piuttosto, l’altra faccia. Le famiglie in Italia si moltiplicano perché la “famiglia italiana” si assottiglia, si indebolisce, si divide e frammenta, fino a diventare atomo più che cellula della società, componente minima ben più, ormai, che base vitale della stessa. Che dire infatti di una società dove le famiglie sono al 30 per cento unipersonali, fatte cioè di una sola persona, e dunque non famiglie? E dove nel restante 70 per cento delle famiglie le coppie con figli rappresentano poco più della metà? E dove tra le coppie con figli la tipologia largamente prevalente è quella della coppia con un solo figlio? Che dire se non che quella società, la società italiana, è a terribilmente bassa intensità di famiglia? I termini della questione famiglia e il senso stesso dell’essere famiglia sono dunque radicalmente mutati tra ieri, non più di quattro decenni fa, e oggi. Sotto la spinta di quali fattori s’è compiuta una trasformazione così formidabile da non consentire, quasi, di poter leggere il presente alla luce del passato? Com’è stato che in un lasso tanto breve di tempo la famiglia italiana si sia ridotta a così poca cosa? E a chi pensasse che poco importa uno stato di salute della famiglia, complessivamente intesa, piuttosto che un altro, viene facile obiettare che, statistiche alla mano. Il faticoso Dopoguerra, la difficile ricostruzione, la trasformazione dell’economia italiana da agricola a industriale, il miracolo economico sono state tutte sfide che l’Italia ha affrontato e vinto, nel quarto di secolo tra la fine della guerra e quella degli anni Sessanta, servendosi di uno strumento, o meglio ancora facendo leva su uno strumento, che potrebbe apparire assai improprio, e che si rivela invece la sua vera arma vincente: quella che oggi definiamo, appunto, come famiglia tradizionale, la famiglia formata dalla coppia eterosessuale più i figli. Ben più del ventennio fascista, quando l’imparità della donna nel confronto con l’uomo, oltretutto, era così marcata da rendere la famiglia inadeguata alla crescita e al progresso, è quel quarto di secolo a rappresentare il trionfo della famiglia, un trionfo che trascina con sé l’Italia intera. E che ci fa intuire come nelle difficoltà di oggi sia proprio quel carburante a mancare, tra le altre condizioni, alla nostra capacità di ripresa.
Quattro fattori hanno cambiato le carte in tavola, scavato un fossato tra ieri e oggi. L’introduzione del divorzio. L’istruzione universitaria di massa, della quale hanno beneficiato e stanno beneficiando, in Italia e non solo, ben più le femmine dei maschi. L’alto, e sempre crescente, livello di terziarizzazione dell’economia. E, più italiano di tutti, il basso grado di mobilità sociale. Sono questi i fattori che hanno cambiato il volto della famiglia e trasformato quella italiana da una società ad alta a una società a bassa intensità di famiglia. Sia chiaro, questo non intende essere un giudizio di valore su tali fattori, ma soltanto la pura e semplice constatazione dei loro effetti sulla famiglia tradizionale e, per il ruolo decisivo che essa riveste, sulla famiglia tout court e sulla società. Il divorzio relativizza il matrimonio, lo rende interscambiabile e sostituibile con altre forme di legami a minor tasso di coinvolgimento e responsabilità dei singoli. In questo senso rappresenta il fattore che più e prima degli altri si ripercuote sulla forza interna della famiglia, indebolendola. La lunga e spesso perfino infruttuosa, allorquando non si conclude con l’acquisizione della laurea, permanenza nelle università italiane, d’altro canto, protrae di per sé una fase di relativa autonomia e, tra virgolette, di “spensierata giovinezza” (che mica è tanto spensierata, oggi come oggi) dei giovani adulti che sempre più ne sposta nel “dopo”, un dopo indistinto, la prospettiva della famiglia. Quanto al grado sempre più elevato di terziarizzazione dell’economia, non si riuscirà mai a immaginare un territorio caratterizzato da una forte presenza dell’industria pesante, più ancora se di base, senza la forte dominanza della famiglia tradizionale. Ma un territorio a grande prevalenza di terziario moderno centrato, poniamo, sui servizi dell’informazione e della comunicazione, indubbiamente sì, è perfino più immaginabile “senza” che non “con” la prevalenza della famiglia tradizionale. Il basso grado di mobilità sociale, infine, mortificando le aspettative, non invoglia certo a metter su famiglia. La famiglia mira, per sua stessa essenza, a sospingere in avanti prima ancora dei singoli le generazioni e dunque, per capirci, più i figli dei genitori, perché questo è il motore che muove l’intera società, e non soltanto le famiglie, che le prospettive dei figli possano risultare migliori e più raggiungibili di quelle dei padri. Se si verifica l’inverso la famiglia perde, parlando in termini generali, la necessaria dinamicità, la sua azione ripiega in se stessa, rischiando la sterilità, l’inconcludenza. Ora, nessuno può pensare di tornare indietro sul divorzio, o di fermare il grado di terziarizzazione dell’economia. Ma sull’istruzione universitaria di massa e il grado di mobilità sociale si può, e si deve, intervenire. E questo del tutto indipendentemente da quel che si pensa della famiglia, tradizionale e non. Che si esca dall’università a 25-27 anni, senza ancora avere avuto alcun rapporto col mondo del lavoro e cominciando soltanto in quel momento a guardarsi in giro, peraltro con lo spaesamento di chi ha vissuto nella separazione più netta con quel mondo fino ad allora, è la più vistosa, costosa e sotto tutti gli aspet ti pregiudizievole delle contraddizioni della società italiana d’oggi. Spaventa che una problematica a tal punto decisiva per il futuro di questa società passi sostanzialmente sotto silenzio o sia lasciata agli “uzzoli” di riforma di quanti nel tempo hanno contribuito alla sua così inappropriata configurazione attuale. Spaventa che professioni e mestieri, anche in conseguenza dell’inappropriatezza di quella configurazione, siano tornati a passare di generazione in generazione come nei tempi passati. Il figlio del medico fa il medico, dell’avvocato l’avvocato, dell’ingegnere l’ingegnere. Dell’operaio l’operaio, dell’agricoltore l’agricoltore. Del disoccupato il disoccupato, anche. Così funziona la società italiana, sempre sull’onda di cicli di studio, e modalità di accesso e di percorrenza degli stessi, che inesorabilmente sacrifica il merito per premiare piuttosto lo spirito acritico e gregario dello studente, spinto più che a trovare una sua dimensione autentica con l’ausilio della scuola e degli studi a darsene, se non proprio a fingerne, una in chiave con quella che la scuola, nell’arco dei suoi ordini e livelli, si aspetta da lui. Comincia dunque dallo studio la costruzione di personalità poco intraprendenti e dinamiche, poco propense al rischio e all’inventiva, portate invece a ricercare nicchie di sicurezza e stabilità dentro le quali accoccolarsi senza troppi pensieri e, semmai, per poter pensare ad altro. C’è poco da scandalizzarsi per la fuga dei cervelli. Tutto l’insieme della Pubblica amministrazione e del settore pubblico, ricalcato su quello dell’istruzione, chiede non già personale capace di cambiare ma di assicurare l’anonima e inefficiente prosecuzione di sé. Si vedano i concorsi pubblici, quando ci sono. Solo puri miracoli, per definizione eccezionali, possono consentire che i suddetti “cervelli”, vincendoli, siano trattenuti dal fuggire lontano. Riforma degli ordini di studio e del rapporto tra università e mondo del lavoro per un lato, nuova filosofia e regole per la pubblica amministrazione e il settore pubblico a tutti i livelli, per l’altro. Non si può non agire con urgenza e radicalità – urgenza e radicalità – su questi due versanti per rimettere in moto al tempo stesso la famiglia e la società, entrambe sclerotizzate. Per la verità il giudizio sulla famiglia, lungi dalla sclerotizzazione, è semmai quello di effervescenza. C’è una larga opinione, specialmente bene istruita e acculturata, specialmente di tendenze di sinistra, radicali e liberali, che vede, al contrario, una grande vivacità nell’universo delle famiglie d’oggigiorno. Si confonde, evidentemente, la possibilità d’inventare, per così dire, la propria famiglia, con la reale diffusione, consistenza, saldezza delle forme di famiglia. Ma quando si è accennato alla famiglia tradizionale come quella formata dalla coppia eterosessuale più i figli già si sono considerate e conteggiate, per esempio, le coppie di fatto, non sposate. Cosicché, è nonostante l’apporto sempre più massiccio di coppie e famiglie di fatto che l’universo delle famiglie marcia spedito verso l’inconsistenza dimostrata dalle cifre. E questo per ché non c’è soltanto la scelta del non matrimonio, come nelle coppie di fatto, che ha preso piede, ma anche quella del celibato/nubilato e quella ancor più estrema dei non figli da parte di coppie che pensano di realizzarsi al di fuori della discendenza. Tutto si lega, e cresce, delle tendenze che contrastano non già il numero delle famiglie ma l’intensità, nel senso chiarito, della famiglia nella società italiana. Al punto da porci di fronte al dubbio se non sia la famiglia annacquata, atomizzata d’oggi quella che meglio risponde ai caratteri e alle esigenze di futuro e di progresso della società attuale. Non mi sentirei di escludere del tutto una tale possibilità. Mi sentirei però di escludere che ci possa essere un futuro e un progresso segnati da equilibrio sociale e possibilità di realizzazione delle aspirazioni più profonde degli individui e delle comunità se finirà per imporsi una concezione, e un modello, di famiglia ridotta ai minimi termini, chiusa, puramente difensiva, che percepisce il resto da sé come ostile, qual è quella che si staglia all’orizzonte avendone, sembra, in società come la nostra, già conquistato un bel pezzo.


Il Foglio 20 Dicembre 2013